I segreti dello specchio: perché ti senti bella?
Se
dovessimo spiegare ad un bambino che cos’è esattamente la bellezza, come
potremmo definirla in termini semplici? Che cosa significa “bello”, e come
potremmo descrivere la sensazione della bellezza (o della sua mancanza)?
La parola
“bellezza” deriva dal latino “bellus”, termine per indicare ciò che appare
grazioso, amabile, gradevole ma, al tempo stesso, anche ciò che è sano, buono
(“bonus”), collegando l’aspetto concreto della percezione (il bello che appare,
il grazioso da osservare) a quello, più spirituale, del buono che fa bene non
solo ai sensi ma anche all’anima, alle emozioni, grazie all’armonia che
sprigiona. D’altra parte, pur se la bellezza e l’estetica rimandano, fin dai
tempi della filosofia antica, a ciò che può essere percepito ed all’aspetto
corporeo e sensibile (la parola “estetica” deriva appunto dal greco αἴσθησις, “sensazione”), la percezione stessa di ciò che appare bello implica
necessariamente anche il giudizio della bellezza, dunque l’aspetto
intellettivo, il pensiero, e naturalmente l’emozione che ne scaturisce e che
permette il riconoscimento della bellezza.
E’
interessante notare che l’etimologia latina della parola “bellezza” (bello e
buono) sembra poter essere applicata, come un concetto senza tempo, alla
concezione attuale della bellezza nella cultura occidentale: la bellezza intesa
non solo come apparenza esteriore, ma anche come la conseguenza di un benessere
interiore, di un corpo sano, pulito, disintossicato, curato a partire dalla sua
più profonda interiorità con un’alimentazione equilibrata, una routine
sportiva, una buona idratazione, una liberazione dallo stress psicofisico a
favore di un aspetto più luminoso, disteso ed attraente. La bellezza sembra
rivelarsi un concetto oscillante tra l’interno e l’esterno, ciò che si
percepisce e ciò che si immagina, si giudica, si sperimenta affettivamente, tra
sé e l’altro, ciò che appare bello e colui o colei che lo definisce tale.
L’estetica, infatti, viene definita in ambito filosofico come una conoscenza della
realtà attraverso la psiche, la quale attribuisce agli oggetti del mondo il
valore della bellezza e della gradevolezza.
Un ulteriore modo di conoscere, comprendere e definire la bellezza potrebbe poi essere quello di partire dal suo contrario: la bruttezza, ciò che appare sgradevole, che viene percepito e sentito come spiacevole, indesiderabile, trascurato. Si potrebbe dire anche della “bruttezza” che si tratta non solo di una forma di percezione, ma anche di un sentimento: quello di attribuire a sé stessi o ad un qualcosa di esterno una sorta di mancanza. Ciò che appare brutto o la persona che si sente brutta è priva di qualcosa, di quella bellezza che consente il giudizio positivo, l’ammirazione, l’attrazione, persino l’amore.
Il
sentimento della bellezza e quello della bruttezza giocano un ruolo
estremamente importante nella psicologia di un essere umano e nella nascita e
nello sviluppo della sua autostima e della sua identità personale. A quanto
pare, un concetto così apparentemente corporeo ed esteriore può rivelarsi, al
contrario, un delicato elemento psicologico che ci accompagna per tutta la
vita, influenzando positivamente o negativamente non solo la nostra
personalità, ma anche il nostro rapporto con il mondo esterno, la nostra
socialità ed i nostri legami più significativi. D’altra parte, sarebbe sciocco
dimenticare la funzione del corpo e della più semplice fisicità nell’evoluzione
della psiche, del pensiero e dell’identità di un individuo che, al principio
della sua esistenza, altro non è che un piccolo corpo ancora incapace di
esprimere ciò che sente se non attraverso il corpo stesso, nel suo antico
relazionarsi al genitore che se ne prende cura. Ogni sentimento di un neonato
passa attraverso il corpo e le sue necessità, così come la cura amorevole di
una madre verso il figlio appena nato. A partire dal corpo nasce, attimo dopo
attimo, la psiche complessa di ogni essere umano, e così il corpo e le sue
manifestazioni continuano, per tutta la vita, ad intrecciarsi costantemente con
il mondo più interiore ed intimo della mente e dell’anima. Per comprendere ciò,
basterà pensare a quanto l’autostima di una persona (nella quale rientra,
certamente, una componente estetica) possa deviare, in un modo o nell’altro,
tutti gli eventi della sua vita, le amicizie, gli amori, il suo lavoro, la sua
felicità o infelicità. Provate, ad
esempio, ad immaginare la vita di una persona dall’autostima estremamente
scarsa e fragile a causa di un sentimento di mancanza di bellezza che riesce
dolorosamente a scalfire ed a distruggere ogni piccola opportunità di felicità
e di realizzazione personale: il sentimento della vergogna e della mancanza
può, fin dalla più tenera età di un individuo, danneggiare le relazioni
interpersonali (“sono troppo brutto per potermi approcciare agli altri”,
“nessuno mi amerà mai”), il senso di autoefficacia (“non ho abbastanza fiducia
in me stesso per riuscire a gestire questo impegno”, "non sono all'altezza di questo cambiamento di vita"), il benessere generale,
rendendo la sua intera vita un vero e proprio inferno. L’autostima estetica ha
davvero un tale potere? Decisamente sì! Per questo motivo non andrebbe mai
sottovalutata da un punto di vista psicologico.
In che modo una persona può arrivare a sentirsi e percepirsi molto bella o molto brutta, al di là della corrispondenza effettiva del suo aspetto fisico ai canoni culturali di “bellezza” o “bruttezza”, di gradevolezza o trascuratezza, di sano o disarmonico, manifestando in alcuni casi anche i sintomi di psicopatologie piuttosto gravi, come il dismorfismo corporeo? Come nasce il sentimento della bellezza (o della mancanza di essa) nella formazione dell’identità di un essere umano?
L’immagine
che osserviamo allo specchio non è solo il riflesso di un volto concreto e
tangibile, dalle caratteristiche effettive e palpabili, ma anche e soprattutto
una sorta di ologramma mentale nato nei primi tempi della nostra vita e che
negli anni si è pian piano formato ed evoluto in base allo sguardo dell’altro:
la persona che guardiamo non è solo il nostro viso fatto di pelle, muscoli ed
ossa, ma anche una sorta di “diario” della nostra storia personale, delle
nostre memorie, dello sguardo di una madre e di un padre che, fin dalla
nascita, hanno visto in noi qualcosa che, pian piano, si è trasformato in una
parte importante di ciò che siamo e che sentiamo di essere. In parole semplici,
i pensieri e le emozioni che hanno accompagnato lo sguardo dei nostri genitori (o
di chi si è preso cura di noi fin dalla più tenera età) quando incontravano il
nostro viso hanno, in qualche modo, influenzato quello che poi sarebbe
diventato il nostro sguardo allo specchio, il nostro modo di guardare (e
giudicare) noi stessi. Il viso di una madre, le sue espressioni facciali ed i
sentimenti e gli affetti manifestati attraverso il suo sguardo rappresentano il
primo specchio della vita di una persona. Quando il bambino molto piccolo non
conosce ancora l’esperienza di osservare la propria immagine, vede sé stesso
nel primo volto importante della sua vita: quello della madre (ed, in seguito,
del padre) che fornisce una prova tangibile della sua esistenza e dell’esistenza
del mondo. La madre è il mondo, è l’unica realtà per un bambino appena nato, e
ciò che traspare da quel viso rappresenta la realtà dell’esistenza nella quale
specchiarsi. Si può forse dire che, in fondo, quello della "bellezza" è un sentimento che si apprende.
Questo vero e proprio rispecchiamento del bimbo nella madre è un
concetto piuttosto semplice, in realtà, e può essere definito come il modo in
cui una madre riesce ad avvertire, comprendere e riconoscere le emozioni
primordiali del figlio e quindi a trasmetterle mediante il proprio viso ed il
proprio sguardo. Rispecchiare il proprio bambino in modo vitale, sano e
creativo significa, quindi, legittimare il suo stato emotivo, accettarlo e
comprenderlo, restituendolo al piccolo essere appena nato in modo che lui
stesso possa essere in grado, pian piano, di riconoscere le proprie emozioni ed
i propri pensieri e così di esprimerli liberamente, favorendo la nascita di una
personalità integrata, forte, stabile e, soprattutto, autentica. Quando questo
processo non avviene, nel caso in cui un genitore tenda a “non vedere” ed a “non
sentire” lo stato affettivo più profondo del figlio, quel bambino probabilmente
crescerà con la sensazione di non essere visto, riconosciuto, accolto,
sviluppando una personalità meno integra, sempre alla ricerca di uno specchio
nel quale potersi finalmente guardare e scoprire, con un’identità paradossalmente
alla ricerca di un’identità. Quel bambino potrebbe trasformarsi in un adulto
ancora dipendente, con il perenne bisogno di ricevere una conferma, un riflesso
di ciò che sente, una legittimazione, una sorta di approvazione di sé
stesso, dei suoi sentimenti ed, infine, del proprio aspetto esteriore. Forse
anche questo ci può condurre a quella sensazione strisciante di “essere brutti”
o non abbastanza belli, mai abbastanza desiderabili, mai completamente accettati
ed approvati dagli “altri”, o meglio dall’Altro, quel genitore interiorizzato il
cui volto e la voce, anche a distanza di anni, permangono nella nostra mente,
giudicandoci ed offrendoci o meno un’approvazione.
La nostra autostima, in parte estetica e legata all’immagine esteriore, è il risultato di un lungo e complesso sviluppo, fisico e psicologico, sociale e culturale, reale ed immaginario, che dà vita ad uno schema corporeo e ad un’immagine interiore di noi stessi, il nostro modo di percepirci ed immaginarci dall’interno, che ci accompagna per tutta la vita. Attorno alla nostra immagine corporea si forma la nostra personalità e, così, la nostra autostima. Quando l’autostima è molto fragile e ruota in modo intenso attorno al corpo, alla sua “bellezza” o “bruttezza”, esprime un conflitto interiore legato proprio al contrasto tra la percezione della realtà fisica e l’immagine interiore ideale che portiamo dentro come un modello da raggiungere. Questo ideale estetico, proprio come lo schema corporeo, nasce da numerosi fattori, come le relazioni familiari, i modelli di riferimento all’interno della famiglia o della società, le condizioni di salute del corpo, le relazioni più o meno positive all’esterno della famiglia e negli ambienti scolastici e lavorativi, così come anche la cultura estetica di riferimento, i messaggi lanciati ed imposti dai media e dalle pubblicità. Eppure, le radici dell’autostima durante i primissimi tempi della nostra vita restano sempre le più importanti, quelle che in un modo o nell’altro tenteranno sempre di riemergere e che guideranno il nostro modo di gestire e filtrare tutte le influenze future.
Si
parla sempre tantissimo del ruolo della madre nello sviluppo della psiche di un
bambino. Cosa dire, però, del ruolo paterno nello sviluppo dell’autostima
estetica di una donna? Durante la prima infanzia, una bambina vivrà una
condizione di simbiosi con la figura materna, primo punto di riferimento e
fonte di nutrimento e di cura per la sua sopravvivenza. In una seconda fase di
vita, però, quella bambina si ritroverà ad affrontare il compito di identificarsi
con la propria madre non più attraverso la simbiosi dell’epoca neonatale, bensì
mediante una “differenziazione” dal sesso maschile per il riconoscimento della
propria femminilità. Il ruolo di un padre agisce proprio come una spinta alla
differenziazione che, al tempo stesso, fornisce alla bambina, futura donna, uno
specchio diverso da quello fornito dalla madre, un differente paio di occhi nei
quali rispecchiare la propria femminilità in formazione: attraverso questo
specchio speciale e l’immagine che tale specchio riesce a riflettere ed a
restituire alla bambina, la futura donna crea la propria immagine interiore, la
propria identità femminile e le basi per la sua futura autostima e le sue
future relazioni con il sesso femminile e quello maschile. Quel padre è in
grado di vedere la propria figlia femmina? Cosa vede in lei ed, al contempo,
quale immagine le restituisce sotto forma di specchio? Quella di una bambina (e
futura donna) sicura di sé, apprezzata, valorizzata, oppure quella di una
bambina non vista, una bambina invisibile, dall’identità incerta, confusa, con
la quale appare difficile o addirittura impossibile lasciarsi andare ad un
gesto di affetto, di approvazione, di vicinanza emotiva? Quello specchio
paterno, in futuro, potrebbe diventare lo stesso riflesso delle relazioni
adulte di una donna con altre figure maschili, così come l’immagine, fisica ma
al tempo stesso mentale, che quella donna vedrà riflessa allo specchio quando
osserverà il proprio corpo, con lo stesso atteggiamento che valorizza ed
approva oppure, al contrario, nega, allontana con disagio, teme con vergogna o addirittura disprezza.
Le figlie, scriveva qualcuno, vedono il proprio valore negli occhi del proprio padre.
Che cosa ne pensi? Senti di rispecchiarti anche tu nella storia del sentimento della "bellezza" e nelle sue intense radici nei primi legami familiari e nello sviluppo infantile?
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Infatti secondo me oggi molte donne mancano di "autostima" perché crescono senza il padre. Io, ad esempio, non ho un bel naso, tant'è che un paio di volte mi è stato persino chiesto "Perché non te lo rifai?" A me, però, non mi è mai passato per la testa, un po' perché ho paura dell'intervento e poi perché se a qualcuno il mio naso non piace può evitare di guardarlo. ;-) Mio padre, pur lavorando fuori durante la settimana, era comunque una figura molto forte e ho sempre saputo che si sarebbe preso cura della famiglia, che mi voleva bene e che era fiero per i miei successi negli studi. E sono certa che è stato anche per il suo sguardo amorevole che oggi riesco a sentirmi a mio agio nonostante il naso "ingombrante". ;-)
RispondiEliminaI modelli estetici che la società impone c'entrano fino a un certo punto e secondo me sono solo una scusa per non vedere le dinamiche che tu hai esposto molto bene nell'articolo.